Aspetti critici del Patent Box

La mancata armonizzazione internazionale della normativa sul Patent Box e talune criticità presenti nelle disposizioni nazionali, creano non pochi problemi di carattere pratico. Per contro, sono proprio le lacune esistenti che possono, in determinati casi, prospettare talune buone opportunità internazionali d’investimento.<br>Se c’è un settore in cui non appare corretto prescindere da una corretta armonizzazione sovranazionale, questo è senz’altro quello dell’Intellectual Property, prodromico per lo svolgimento di qualunque attività di R&S, considerate le tipiche connessioni internazionali cui l’attività, in generale, si presta nella pratica.
Con il mondo che diventa sempre più globalizzato e le attività transfrontaliere che costituiscono ormai la norma, le Amministrazioni Finanziarie sono obbligate a uno sforzo congiunto di cooperazione al fine di assicurare che i contribuenti paghino la giusta quantità d’imposta, presso l’effettiva Giurisdizione di competenza, in ossequio a un approccio “Nexus”; ovverossia, di corretta inerenza. Il principio viene affermato dall’OCSE in particolare nell’Action 5 (Harmful Tax Practices), del Piano BEPS (Base Erosion and Profit Shifting); ossia, l’Azione che mette in guardia dai rischi insiti in pratiche dannose di elusione fiscale, le quali non tengano in debita considerazione, trasparenza e sostanza dell’operazione. Cosa che comporta l’obbligo di verificare, prima di tutto, l’approccio di nesso tra ricavi e costi che li hanno effettivamente generati.
Peraltro, nell’ottica del raccomandato approccio olistico al Piano, occorre, altresì, rilevare che, proprio per la sua natura, l’approccio “Nexus” bene si presta a essere utilizzato anche e soprattutto nella lotta ai rischi fiscali indicati nell’Action 1 (Digital Economy), laddove la naturale dematerializzazione del prodotto offerto favorisce naturalmente facili sviamenti rispetto ai rigorosi principi di inerenza.
In pratica, con il nexus approach, la proporzione delle spese direttamente collegate alle attività di sviluppo dimostra il reale valore aggiunto dal contribuente. Il concetto base del Patent Box (PB) è, dunque, il seguente: dal momento che i regimi IP sono predisposti per incoraggiare le attività di R&D e per sostenere la crescita e le assunzioni, vi deve essere una necessaria connessione operativa tra costi e ricavi, nel caso in cui il contribuente interessato intenda beneficiare di questa particolare tipologia di regime di convenienza tributaria.
Il primo passo sarà allora quello di analizzare l’attività sostanziale eseguita dall’impresa. Tale substantial activity ha come obiettivo la verifica relativa allo svolgimento materiale di operazioni direttamente legate alla produzione o all’implementazione del bene immateriale, oggetto del regime IP, onde appurare la porzione di reddito figurativo derivante dagli intangibles effettivamente ascrivibile in percentuale sul globale fatturato realizzato dall’impresa. Il Nexus Approach delinea, infatti, un tipo di tassazione agevolata per tutti i redditi che originano dai diritti su beni immateriali, nella misura in cui tali redditi vengano creati da spese c. d. qualificanti: la quota parte agevolabile sarà, di regola, rappresentata dal quoziente tra qualifying expenditures (costi qualificati) e overall expenditures (costi complessivi).
Primariamente, occorre ricordare che la previsione di questo regime di tassazione agevolata si dovrebbe porre in una sorta di linea di continuità con i modelli progressivamente introdotti in altri Stati membri della Comunità Europea, nonché essere conforme a quanto raccomandato dall’OCSE.
In particolare, fin dal 1971, la Francia aveva ipotizzato un’agevolazione fiscale concernente gli intangibles. Dopo di che, nella Strategia di Lisbona (marzo 2000), il Consiglio UE aveva espresso un parere favorevole di massima al riguardo. Sono così state emanate le prime disposizioni in Olanda e Belgio (2007), Lussemburgo e Spagna (2008), Ungheria (2012), Gran Bretagna (2013), Portogallo (2014) e – come noto – l’Italia (Legge di Stabilità per il 2015).
È evidente che il bene intangibile dovrebbe essere ugualmente tutelato in qualsiasi Paese comunitario in maniera pressoché uniforme; e non certo costituire un’ennesima fattispecie di differenziazione, amplificando (anziché restringere) il campo di azione elusivo perpetrato dai grossi gruppi internazionali. Ma, così, non è.
Attualmente esistono 12 normative differenti, in 12 Paesi europei; e tali diversità sono di carattere sostanziale (livelli di tassazione, trattamenti delle spese, tipologia di detrazioni etc.). In Francia, a esempio, i ricavi sono tassati al 15%; l’aliquota vigente a Malta, Cipro e Liechtenstein è sostanzialmente prossima allo 0%; da noi, la detassazione è giunta a regime nel corrente 2017 e sconta il 50%. Inoltre, gli elementi di maggiore criticità, i marchi (recente oggetto di modifica normativa in Italia – DL 50/2017), risultano regolarmente inclusi nei regimi agevolati previsti dalle giurisdizioni comunitarie di: Lussemburgo, Ungheria, Liechtenstein e Cipro.
Ebbene, appare ai più evidente come, stante detta situazione normativa internazionale, diventa assai facile delocalizzare i redditi dei beni intangibili, ottenendone un immediato e contestuale elevato sgravio fiscale, pur rispettando il prescritto Nexus Approach.
Come anzidetto, infatti, secondo l’interpretazione emersa in sede OCSE, misure di tassazione agevolata dei redditi derivanti dall’utilizzo dei beni immateriali sono conformi a condizione che venga osservato il ricordato principio di nesso. Senonché, proprio in ossequio a tale linea OCSE, si pongono dei problemi concernenti i beni intangibili “marketing related” (esempio tipico: i marchi), che, nonostante comportino spesso anch’essi indubbi costi di R&D, risultano essere formalmente esclusi dal Nexus Approach. L’OCSE raccomanda di escludere sia i marchi (commerciali) che, in generale, il know-how, e indica un eventuale periodo iniziale transitorio fino, al massimo, al 2021.
La scelta è fonte di non poche criticità da un punto di vista pratico/operativo. Possiamo concordare sul fatto che la ratio della norma, legata al principale requisito dell’innovazione, non sussista laddove si vada a dover considerare un marchio commerciale fine a sé stesso. Ma se (come ora normato in Italia) il marchio è parte unica e inscindibile di un altro intangible innovativo? Esempio, un’autovettura?
Con l’ultima finanziaria di fine aprile, i marchi d’impresa sono usciti dal campo di applicazione del PB (sono fatte salve le opzioni esercitate in precedenza, ma solo fino al 30/06/2021), anche nel caso di utilizzo congiunto con gli altri beni immateriali agevolabili, collegati tra loro da vincoli di complementarietà, ai fini della realizzazione di un prodotto, o di una famiglia di prodotti, o di un processo, o di un gruppo di processi. Il Legislatore ha giustificato tale cambio di rotta con la necessità di adeguarsi alle indicazioni dettate in campo internazionale.
Non possiamo, però, non rilevare che questa “scusa” non sta in piedi.
Punto primo: l’OCSE si riferisce ai marchi prettamente commerciali e comunque non esiste alcun obbligo specifico in proposito; tanto è vero che numerosi altri Paesi membri non hanno adottato analoga norma di legge (anzi, come prima precisato, vi sono ancora tante giurisdizioni che non hanno proprio emanato alcun regime preferenziale afferente i beni intangibili). Ma, soprattutto, la raccomandazione è soltanto quella che prevede l’indispensabile sussistenza del principio di nesso. Orbene, se tale principio potrebbe non verificarsi col mero deposito di un marchio commerciale, lo stesso non si può affermare riguardo a quei marchi (marketing related) inscindibilmente parte di determinati brevetti necessari per la realizzazione di unico processo produttivo. Bene, quindi, il Legislatore avrebbe fatto, una volta espunti i marchi commerciali (fini a sé stessi) dall’elenco dei beni agevolabili, ad astenersi dall’aggiungere quell’ulteriore precisazione afferente l’esclusione espressa dei marchi anche nelle fattispecie di complementarietà, concretamente non separabile nella pratica.
Punto secondo: se la motivazione è quella di adeguarsi alle raccomandazioni dettate dall’OCSE, non si comprende perché solo alcune delle stesse siano state “ratificate” in legge, mentre molte altre (tra le quali, certune di fondamentale rilevanza) siano state “dimenticate”. L’indicazione, infatti, non è quella di espungere solo i marchi commerciali, ma anche il know-how aziendale; che, viceversa, non ha subito modifiche nella citata finanziaria-bis, restando tuttora regolarmente incluso tra i beni agevolabili.
Ancora: la normativa italiana ci dice che possono essere presi in considerazione per il calcolo anche i costi sostenuti nei vari anni precedenti. Le Linee Guida OCSE, però, precisano che: I costi da considerare sono solo quelli sostenuti nel periodo di riferimento, a prescindere dal regime fiscale e dal trattamento contabile.
Un altro elemento concerne l’esclusione (assolutamente ingiustificata) dei professionisti dal regime del PB, atteso che l’attività di R&D è oramai divenuta parte integrante del lavoro svolto dalla maggior parte di detti contribuenti. Ma, quel che più rileva, l’OCSE parla di “soggetti” che eseguono tali tipologie di attività; non di “soggetti titolari di reddito d’impresa”: questa è un’ulteriore precisazione arbitrariamente inserita dal Legislatore nazionale.
Infine, pare doverosa un’osservazione di carattere tecnico-giuridico. Per quanto concerne le opere dell’ingegno, la legge italiana circoscrive l’ambito di applicazione al software protetto da copyright, poiché in tal senso si esprimono le Linee Guida dell’OCSE. Il Decreto chiarisce che per la definizione di tali tipologie di beni immateriali e dei requisiti per la loro esistenza e protezione, si debba fare riferimento alle norme:

nazionali
estere e comunitarie
dei trattati e convenzioni in materia di proprietà industriale e intellettuale

applicabili nel relativo territorio di protezione, in ragione del fatto che i beni immateriali oggetto del regime in argomento sono, non solo quelli tutelati in Italia, ma anche appunto quelli tutelati in un qualsiasi Paese estero in base alle norme ivi applicabili.
Tale elenco, per quanto non possa che recepirsi come vincolante rispetto a tutte le fonti citate, non deve, a nostro avviso, intendersi in ordine di priorità/importanza nelle eventuali ipotesi di contrasto fra norme, atteso che, in tal caso configurerebbe un’illegittima inversione della gerarchia delle fonti tributarie internazionali, come prevista dall’art. 117 della Costituzione, il quale stabilisce la priorità della normativa comunitaria, seguita da quella convenzionale e, solo in terz’ordine, dalla disposizione domestica.
Come se, però, tutto ciò non fosse ancora sufficiente già a livello teorico, andiamo ora ad analizzare l’elemento di maggiore criticità che si riscontra nella pratica: ovverossia, la scelta del metodo di calcolo per definire il contributo economico in sede di ruling con l’Agenzia delle Entrate.
Per determinare il contributo economico con esattezza, è infatti necessaria la preventiva conclusione di un accordo (ruling), in contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate. Detto ruling – ci dice la norma – deve seguire quanto previsto in materia di transfer pricing dall’OCSE, provvedendo a predisporre un dossier completo contenente i documenti, i calcoli e i pareri atti a comprovare i risultati raggiunti, in funzione del principio di concorrenza leale (in sostanza, a valore di mercato, laddove possibile).
I tre principali metodi di calcolo raccomandati dall’OCSE con riguardo al transfer pricing, li ritroviamo dettagliati nell’Action 10 del Piano BEPS; detti metodi, in rigido ordine di priorità (talché, se non usiamo il primo, ma il secondo, dobbiamo giustificare tale scelta; e così pure, a seguire per i successivi) sono i seguenti:
CUP – Comparable Uncontrolled Price (Confronto del prezzo)
CPM – Cost-Plus Method (Costo maggiorato)
RPM – Resale Price Method (Prezzo di rivendita)
Dopo di che, l’OCSE, in tale sede, posto che indicava delle metodologie con lo scopo di riuscire a ricomprendere tutte le ipotizzabili fattispecie di transazioni internazionali infra-gruppo (e non certo i soli casi di PB), ha opportunamente previsto alcuni altri metodi di calcolo di tipo meramente residuale, come il RPSM (Residual Profit Split Method). Sempre secondo le OECD Guide Lines, questi particolari metodi non dovrebbero essere utilizzati mai, se non in casi veramente eccezionali e residuali (lo dice il nome stesso), nei quali risulta davvero impossibile fruire di uno dei tre principali metodi sopra ricordati.
Il motivo è immediatamente intuibile: l’RPSM è per sua natura di tipo meramente ipotetico-prospettico; ed è evidente che, quanto più ci azzardiamo a fare previsioni economiche per il futuro, tanto meno probabile sarà il grado di effettiva corrispondenza alla realtà di dette previsioni. Ma, quel che più rileva con riferimento al tema attuale, l’RPSM non tiene praticamente in alcun conto l’indispensabile principio di nesso.
Cionondimeno, riscontriamo sempre più di frequente nella pratica, dei casi in cui l’impresa propone l’istanza di ruling allegando – ineccepibilmente – il calcolo eseguito con il CUP e l’Agenzia delle Entrate, senza alcuna motivazione normativa (oltre che di pura logica e buon senso), pretende che il conteggio venga riproposto basandosi sull’RPSM.
Dobbiamo forse supporre che i funzionari abbiano ricevuto una sorta di vademecum operativo esclusivamente fondato sull’RPSM e non siano in grado di concordare un ruling utilizzando il CUP (come, peraltro, inizialmente avevano regolarmente fatto)?
Da rimarcare che la procedura di ruling si applica anche per i rapporti infragruppo; pertanto, nel caso in cui i redditi relativi ai beni immateriali siano realizzati mediante operazioni infragruppo, l’agevolazione spetterà a condizione che i predetti redditi siano determinati sempre in funzione della citata procedura di ruling stabilita in tutte le ipotesi di utilizzo diretto (Arm’s Length Principle).
Ricordiamo, altresì, che, nei casi in cui si prevede l’attivazione della procedura di ruling di standard internazionale, in deroga alla normativa generale che prevede la decorrenza dell’accordo con l’Agenzia delle Entrale a partire dal periodo d’imposta nel quale l’accordo è stato stipulato, l’opzione per il regime di tassazione agevolata in parola ha valenza dal periodo d’imposta durante il quale è presentata la richiesta di ammissione alla predetta procedura di ruling internazionale. Qualora non si raggiunga un accordo per la determinazione del reddito con il competente ufficio dell’Agenzia delle Entrate entro il termine di presentazione della dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta nel quale si è fatta richiesta di ammissione alla procedura di ruling internazionale, i soggetti beneficiari sono in ogni caso tenuti a determinare il reddito secondo le regole ordinarie. Potranno solo indicare nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta di sottoscrizione del ruling la presunta quota agevolata, restando ferma la possibilità di presentare istanza di rimborso o dichiarazione integrativa “a favore”, laddove ne ricorrano tutti i termini di legge.
Sempre in tema internazionale, si rammenta altresì che possono esercitare l’opzione tutti i soggetti titolari di reddito di impresa, inclusi quelli non residenti con stabile organizzazione nel territorio dello Stato, a condizione che siano comunque residenti in Paesi con i quali è in vigore un accordo per evitare la doppia imposizione e con i quali lo scambio di informazioni sia effettivo (con ciò deve necessariamente intendersi un CRS obbligatorio di tipo automatico e spontaneo).
Passando ad altro, è doveroso dar conto di un’altra importante agevolazione concessa dalla normativa (non meno esente da critiche), che è quella afferente la detassazione delle plusvalenze realizzate a seguito della cessione degli intangibles.
Come noto, non concorrono a formare il reddito complessivo le plusvalenze derivanti dalla cessione dei beni immateriali, a condizione che almeno il 90% del corrispettivo sia reinvestito nella manutenzione o nello sviluppo di altri beni immateriali, entro la chiusura del secondo periodo d’imposta successivo a quello nel quale si è verificata la cessione (esempio: cessione nel corrente 2017, termine del reinvestimento al 31.12.2019).
Qui le previsioni non condivisibili insite nella legge sono due.

Occorre reinvestire il 90% dell’intero corrispettivo ricavato dalla cessione del bene, e non il 90% del valore della plusvalenza; ciò significa che, almeno nella stragrande maggioranza dei casi, il valore della somma da reinvestire sarà di gran lunga superiore rispetto a quello della plusvalenza detassata (considerato lo spirito dell’intero decreto, questa scelta del Legislatore, francamente, non convince).
Si parla di manutenzione e sviluppo; ergo, non rientrano tra i reinvestimenti qualificati le somme destinate – per esempio – anche all’acquisto di altri beni immateriali (pure questa scelta non appare affatto in linea con l’intera ratio istitutiva del PB).

Ovviamente, poi, nel caso in cui la cessione venga effettuata nei confronti di una società appartenente al medesimo gruppo, il contribuente avrà la possibilità di concordare preventivamente nell’ambito della procedura standard di ruling internazionale, il prezzo di cessione infragruppo e la conseguente plusvalenza.
Qualora, infine, la condizione per l’esenzione delle plusvalenze non sia realizzata entro il termine previsto, il recupero a tassazione avviene nella dichiarazione dei redditi relativa al secondo periodo d’imposta successivo a quello in cui si verifica la cessione, mediante ordinaria variazione in aumento.
Possiamo, dunque, concludere che, in un’ottica di pratica applicazione, questa ulteriore agevolazione concernente le plusvalenze da cessione non appare per nulla conveniente.
Completando l’analisi con qualche dato di cronaca, pare doveroso rappresentare che, a oggi, sono stati definiti da taluni Uffici dell’Agenzia delle Entrate una dozzina di accordi sul PB che riguardano sia brevetti, disegni e modelli, che marchi e know-how, utilizzando inizialmente il metodo del confronto sul prezzo (CUP – Comparable Uncontrolled Price) e, successivamente, quello sulla ripartizione degli utili (RPSM – Residual Profit Split Method).
Riassumendo quanto sopra analizzato, se il Legislatore intendeva (con tale particolare normativa sul PB) prospettare al contribuente locale una nuova occasione per espatriare, delocalizzando la produzione dei suoi redditi al di fuori dei confini nazionali, riteniamo che abbia pienamente conseguito il suo obiettivo.

Fonte: http://www.paolosoro.it