Il curatore fallimentare non è il legale rappresentante

Pare una banalità scrivere che il curatore fallimentare non è il legale rappresentante del soggetto fallito. Tuttavia questo concetto, per quanto semplice, qualche volta viene dimenticato.<br>E’ successo che cartelle di pagamento riferite a tributi dovuti dal soggetto fallito fossero notificate al curatore con indicazione del codice fiscale di quest’ultimo e, in alcuni casi, senza alcuna indicazione del soggetto fallito. Le implicazioni di ciò sono notevoli: il curatore si trova a dover chiedere l’annullamento in autotutela dell’atto e, se ciò non avviene, addirittura ricorrere presso la Commissione Tributaria, con conseguenti perdite di tempo e spese legali.

Il Curatore fallimentare non assume mai la qualifica di legale rappresentante del soggetto fallito (persona fisica o società), né è responsabile per i debiti di quest’ultimo. Egli agisce unicamente in veste di ausiliario del Giudice per la liquidazione dell’attivo e la ripartizione del ricavato tra i creditori aventi diritto nel rispetto della par condicio creditorum.
Solo in relazione a tale ruolo diventa sostituto del fallito, con i poteri e le finalità stabiliti dalla legge fallimentare.

Il fallimento determina lo spossessamento generale dei beni in capo al debitore, nell’interesse dei creditori, al fine del soddisfacimento degli stessi in modo concorsuale. A tale fine l’amministrazione del patrimonio fallimentare diventa di competenza del curatore.

Tuttavia, il fallito persona fisica conserva la propria capacità giuridica e di agire e l’amministratore/liquidatore della società fallita mantiene la rappresentanza sociale.

La dimostrazione di questo sono i casi in cui la legge fallimentare riconosce un ruolo attivo al fallito (o agli amministratori/liquidatori della società fallita), come la possibilità di essere sentito in fase di formazione dello stato passivo, poter proporre reclamo avverso la sentenza di fallimento o contro gli atti del curatore, del comitato dei creditori, del giudice (art. 26 e 36 LF).

Quando il soggetto fallito è una società, l’art. 146 L.F. equipara (per quanto riguarda i poteri e gli obblighi) gli amministratori ed i liquidatori della stessa al fallito persona fisica in quanto la norma prevede: “Gli amministratori e i liquidatori della società sono tenuti agli obblighi imposti al fallito dall’articolo 49. Essi devono essere sentiti in tutti i casi in cui la legge richiede che sia sentito il fallito”. Dunque, anche dopo il fallimento tali soggetti continuano a rappresentare la società.

L’art. 152 L.F. riguardante il concordato fallimentare ribadisce questo concetto, prevedendo che “La proposta di concordato per la società fallita è sottoscritta da coloro che ne hanno la rappresentanza sociale”.

Altre prove del fatto che il curatore non è rappresentante legale del soggetto fallito risiedono nelle disposizioni che prevedono:

che possa resistere contro il fallito in caso di reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento (art. 18 LF).
che possa costituirsi parte civile nei procedimenti penali per reati per bancarotta, anche contro il fallito e gli amministratori/liquidatori della società (art. 240 LF);
che possa esercitare le azioni revocatorie fallimentare e ordinaria contro gli atti compiuti dal fallito.

Per quanto riguarda la legittimazione processuale, il fatto che il curatore stia in giudizio in luogo del soggetto fallito per i rapporti di diritto patrimoniale non lo rende un rappresentante legale. Infatti, la perdita della legittimazione processuale in capo al soggetto fallito è solo la conseguenza dello spossessamento del patrimonio e non si estende a rapporti di natura non patrimoniale.

Anche la giurisprudenza della Cassazione è orientata in tal senso. Ad esempio la sentenza n. 9605/1991 nella quale si scrive “.. chiarisce i termini della questione la qualifica del curatore come “pubblico Ufficiale” (art. 30 legge fallimentare), componente dell’Ufficio fallimentare, e come tale non rappresentante o curatore del fallito, ma munito di poteri e funzioni che in via autonoma ed originaria gli derivano dalla nomina e dalla legge, nel perseguimento delle finalità tipiche della procedura concorsuale. Il fatto che alla curatela sia affidata l’amministrazione del patrimonio del fallito….. non comporta affatto che sul curatore incomba l’adempimento di obblighi facenti carico originariamente all’imprenditore, ancorché relativi a rapporti tuttavia pendenti all’inizio della procedura concorsuale. Al curatore competono gli adempimenti che la legge gli attribuisce e tra essi non è ravvisabile alcun obbligo generale di subentro nelle situazioni giuridiche passive di cui era onerato il fallito…..
Poiché il curatore, nell’espletamento della pubblica funzione, non si pone come successore o sostituto necessario del fallito, su di lui non incombono né gli obblighi dal fallito inadempiuti volontariamente o per colpa, né quelli che lo stesso non sia stato in grado di adempiere a causa dell’inizio della procedura concorsuale, ancorché la scadenza di adempimento avvenga in periodo temporale in cui lo stesso curatore possa qualificarsi come datore di lavoro nei confronti degli stessi dipendenti , o di alcuni di essi.”

Anche successivamente la stessa Corte di Cassazione ha espresso lo stesso orientamento con la sentenza n. 508/2003, richiamando una precedente sentenza della stessa Corte: “il curatore del fallimento, quale organo investito di una pubblica funzione nell’ambito dell’amministrazione della giustizia, svolge un’attività distinta da quella del fallito o dei creditori, ed agisce imparzialmente non in rappresentanza o in sostituzione del fallito o dei creditori, ma per far valere, di volta in volta, e sempre nell’interesse della giustizia, le ragioni dell’uno o degli altri o della massa attiva fallimentare (così già Cass. 5 aprile 1974 n. 955)”.