16 Gen Codice di procedura penale, art. 192 – Valutazione della prova
<br>La valutazione della prova.
L’art. 192 co. 1 sancisce il principio del libero convincimento del giudice nella valutazione della prova e del suo obbligo della motivazione da parte del giudice nel momento della valutazione della prova. Il disposto dell’art. 192 co. 1 sottolinea l’attribuzione esclusiva al giudice del merito del potere di valutazione della prova e dell’obbligo di esplicitare, nel modo più rigoroso e completo la motivazione posta a base della decisione adottata, deve ritenersi che si sia inteso ribadire in pieno il principio del libero convincimento, ancorandolo alla necessità di indicazione specifica dei risultati acquisiti e dei criteri adottati, al fine di evitare che lo stesso trasmodi in un uso arbitrario di tale principio.
Il libero convincimento non può significare prova a valutazione libera, il principio si àncora al dato probatorio risultante dalla dialettica dibattimentale, investe l’area riservata alla valutazione del dato, trova il suo limite nella motivazione.
Nella valutazione della prova, siano esse dirette o indirette, il giudice non può sottrarsi al dovere di accertare alla luce di ogni altra emergenza acquisita, la loro idoneità a dare dimostrazione della responsabilità dell’imputato, dando poi conto dell’iter argomentativo seguito ai fini della formazione del convincimento raggiunto, attraverso una motivazione che, se corretta logicamente e giuridicamente, si sottrae a censure di legittimità.
Il giudice di merito è libero di valutare le prove raccolte, organizzandole e dando a ciascuna di esse, il peso e il significato ritenuti più opportuni. La relativa motivazione in cui si estrinseca tale operazione intellettuale è insindacabile in sede di legittimità se rispetta le regole della logica ed è frutto di valutazione esatta ed aderente alle risultanze processuali ed ai principi generali che regolano la valutazione della prova. Secondo l’art. 192 non può dirsi adempiuto l’onere della motivazione se il giudice si limita ad una mera considerazione del valore autonomo dei singoli elementi probatori senza pervenire a quella valutazione unitaria della prova che è il principio cardine del processo penale.
Pertanto nel ricostruire un fatto dell’esperienza, il giudice deve essere libero di credere o non credere ad una fonte di prova e non può essere condizionato, nel valutare la rilevanza, da giudizi normativamente prefissati. Così come il procedimento probatorio, si sviluppa secondo distinti direttive: regole di assunzione dei mezzi di prova, principio del contraddittorio, criteri di valutazione degli elementi di prova, obbligo di motivazione per spiegare le ragioni della decisione.
L’obbligo di motivare i provvedimenti giurisdizionali, sancito in via generale dalla Costituzione (art. 111, 6° co. Cost.) deve considerarsi, un limite connaturato al libero convincimento, si tratta di un vincolo di natura essenzialmente giuridica, sicchè la violazione dell’obbligo, cioè l’omessa indicazione delle ragioni poste a fondamento della decisione è sanzionata con la nullità del provvedimento.
L’epilogo del procedimento quindi è costituito dalla valutazione della prova, quindi attività valutativa e rappresentativa del libero convincimento in virtù del quale il giudice è affrancato da criteri legalmente predefiniti, ma deve poggiarsi su metodi razionali, in modo da ricostruire il fatto che deve essere aderente alle risultanze istruttorie e appaia conforme a canoni logici, quindi valutazione probatoria secondo legge, ispirata a canoni di razionalità e di ragionevolezza ed effettuata su prove legittimamente acquisite nel dibattimento e quindi utilizzabili.
I risultati acquisiti e i criteri adottati
Il giudice deve spiegare chiaramente i risultati acquisiti ed i criteri adottati (leggi scientifiche, leggi della logica, massime d’esperienza e quant’altro sia servito all’inferenza dall’universo probatorio al fatto principale), concisamente esponendo i motivi di fatto e di diritto su cui ha fondato la decisione, e indicando sia le prove poste a base della stessa, sia le ragioni per cui ha ritenuto non attendibili le prove contrarie (art. 546 lett. e). Con l’espressione “risultati acquisiti” si fa riferimento all’esito del procedimento intellettivo che ha costituito il ponte tra l’assunto iniziale e le emergenze probatorie. L’obbligo imposto al giudice di indicare espressamente i risultati serve “ad ancorare più saldamente la decisione al materiale probatorio”, impedendo commistioni tra la conoscenza giudiziale ed il sapere privato del giudice, il che significa non far dipendere la decisione dal bagaglio di conoscenze personali, poiché la prova viene valutata in base a regole oggettive.
I criteri adottati sono, invece, le leggi scientifiche, le leggi della logica, le massime d’esperienza e quant’altro è servito per inferire l’esistenza o l’inesistenza del fatto dall’analisi del materiale probatorio: la loro indicazione permette il controllo sulla coerenza logica del ragionamento, sull’inferenza che ha condotto ai “risultati acquisiti”, al dato cognitivo acquisito in sede istruttoria e il fatto da provare.
Motivare significa rendere esplicito anche il canone di argomentazione utilizzato per arrivare alla affermazione della sussistenza del fatto imputato: il giudice fa leva non solo sui fatti indizianti, ma sulle massime di esperienza che ne accreditano l’efficacia.
La disciplina codicistica conferisce rilievo normativo all’argomentazione probatoria, cioè al procedimento intellettivo attraverso cui il giudice dall’elemento di prova perviene, mediante una regola di inferenza, a un risultato. L’elemento di prova si identifica con ciò che, introdotto nel processo, può essere impiegato come oggetto della successiva attività inferenziale. Esso indica il contenuto informativo della fonte (es. dichiarazione di un teste ecc.), dal quale si ricava un esito che rappresenta il risultato finale dell’argomentazione probatoria, ne discende che sulla base dell’elemento di prova, si avrà il procedimento intellettivo che ci dirà se un’affermazione è vera o falsa.
La valutazione della prova è “un’attività legale e razionale. Legale, perché si esercita su prove legittimamente acquisite […]. Razionale, perché implica l’obbligo di motivare, di giustificare la decisione secondo criteri di ragionevolezza, nel rispetto di tre ordini di regole: le regole della logica, della scienza, dell’esperienza corrente”.
I “criteri adottati” nella valutazione della prova sono i criteri logico-argomentativi che hanno determinato il passaggio inferenziale dal factum probans al factum probandum, dal fatto noto all’esistenza o inesistenza del fatto da provare. Essi, per espressa previsione di legge ( art. 192 c. 1: canone metodologico che contribuisce alla strutturazione della motivazione), devono essere indicati in sentenza, per garantire la “pubblicità” del ragionamento del giudice e quindi la controllabilità della coerenza argomentativa e della congruità sostanziale, “in altri termini, la sua ragionevolezza” Tra i criteri adottati rientrano le leggi scientifiche e le c.d. massime d’esperienza.
Le leggi scientifiche mirano, a consentire che talune conoscenze, verificate e certe, vengono impiegate quali parametri che hanno un elevato margine di attendibilità, sono sempre più massicciamente utilizzate nell’accertamento dei fatti, formulati su base generale, requisito che gli conferisce il carattere dell’indipendenza dal caso concreto.
Le leggi scientifiche, come le massime di esperienza, rappresentano la premessa del sillogismo giudiziario che si caratterizza, per la loro massima univocità.
Il giudice utilizza spesso leggi scientifiche che appartengono al patrimonio conoscitivo dell’uomo medio, ma negli ultimi anni si è assistito alla vertiginosa crescita d’importanza del ruolo processuale di periti e consulenti tecnici, che testimonia, da una parte, il sempre maggior ricorso alle conoscenze specialistiche per l’accertamento dei fatti, dall’altra, e conseguentemente, la “processualizzazione del metodo scientifico”. Le Sezioni Unite, dopo aver affermato che si può condannare solo ove l’esistenza del fatto e la responsabilità dell’imputato siano state provate “al di là di ogni ragionevole dubbio”, hanno statuito che è rilevante non tanto la astratta validità statistica della legge, quanto la validità, l’operatività della stessa nel caso concreto, alla luce delle risultanze processuali.
Le massime d’esperienza, formulabili da “ogni persona sana di mente e di media cultura” sono regole di comportamento ricavabili dalla realtà ed esprimono ciò che avviene nella maggior parte dei casi, è l’esperienza a consentire di formulare un giudizio di relazione, fenomeno che si verifica quando viene accertato che una determinata classe di accadimenti si accompagna a un’altra determinata classe di eventi. Per essere utilizzate dal giudice devono aver raccolto conferme tali da renderle riconosciute ed accettate in modo tale da considerarle affidabili. La possibilità di ricorrere fruttuosamente ad una massima d’esperienza risiede nel grado di vincolatività dell’inferenza che essa permette: il grado di universalità e di concludenza della massima impiegata, valutato accrescendo il processo di falsificazione delle ipotesi contrarie, esprime il livello di probabilità posseduto dal giudizio finale. In giurisprudenza, “nella valutazione probatoria giudiziaria è corretto e legittimo fare ricorso alla verosimiglianza ed alle massime d’esperienza, ma, affinché il giudizio di verosimiglianza conferisca al dato preso in esame valore di prova, è necessario che si possa escludere plausibilmente ogni alternativa spiegazione che invalidi l’ipotesi all’apparenza più verisimile. Ove così non sia , il suddetto dato si pone semplicemente come indizio da valutare insieme a tutti gli altri elementi che risultano dagli atti. (Cass. 2005/230873; Cass. 2009/243528).
Inevitabilmente, il dibattito dottrinale e giurisprudenziale si articola, oltre che sulla funzione e sull’effettivo contenuto delle “regole” di cui all’ art. 192, sul significato proprio dell’aggettivazione usata dal legislatore per qualificare gli indizi idonei a dimostrare l’esistenza di un fatto. La giurisprudenza è stata abbastanza unanime nell’affermare che gli indizi debbono essere necessariamente plurimi, acquistano attitudine probatoria se ed in quanto l’univocità, la gravità e la concordanza li elevino a rango di elemento di prova; “gravi sono gli indizi consistenti, cioè resistenti alle obiezioni, e, quindi attendibili e convincenti; precisi sono quelli non generici e non suscettibili di diversa interpretazione altrettanto o più verosimile e, perciò, non equivoci; concordanti sono quelli che non contrastano tra loro e più ancora con altri dati o elementi certi”. Talvolta, ci si è spinti anche oltre il dettato normativo sostenendo che “la precisione dell’indizio ne presuppone la certezza. Tale requisito, benché non espressamente indicato dall’ art. 192, è da ritenersi insito nella previsione di tale precetto.
L’ art. 192 c. 3 e 4 stabilisce come regola di valutazione della chiamata in correità, introducono, più in generale, “una regola di giudizio destinata ad operare con riguardo alle dichiarazioni rese dai coimputati del medesimo reato o di un reato connesso”. Siamo davanti, cioè, ad una “linea-guida” nella valutazione delle propalazioni di “chi è coinvolto negli stessi fatti addebitati all’imputato o ha comunque legami con lui” per “la necessità di circondare di maggiori cautele il ricorso ad una prova” dotata di particolare “attitudine ad ingenerare un erroneo convincimento giudiziale” questa acquista valore probatorio solo con riscontri obiettivi che ne attestino l’attendibilità. Non basta che una delle suddette persone formuli un’accusa perchè possa ritenersi raggiunta la prova di colpevolezza dell’imputato.