Diffamazione e diritto all'oblio

<br>Diffamazione. Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032.
Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2.065.
Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516.
Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o a una sua rappresentanza, o a una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.

Diffamazione a mezzo internet.  Perfeziona la fattispecie di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, 3° comma, c.p. la creazione di un sito internet, recante messaggi ed immagini dal contenuto erotico, al quale è associato il nome e il recapito telefonico di persona realmente esistente, allo scopo di arrecarle o consentire a terzi molestie e nocumento alla reputazione. L’utilizzo di un sito internet per la diffusione d’immagini o scritti atti ad offendere un soggetto è azione idonea a ledere il bene giuridico dell’onere nonché potenzialmente diretta “erga omnes”, pertanto integra il reato di diffamazione aggravata. Affinché il provider, che si limiti ad ospitare sui propri server i contenuti di un sito internet predisposto dal cliente, possa rispondere per le attività illecite poste in essere da quest’ultimo, non è possibile ravvisare un’ipotesi di colpa presunta, ma è necessario che sussista la colpa in concreto, ravvisabile, ad esempio, laddove venuto a conoscenza del contenuto diffamatorio di alcune pagine web, non si attivi immediatamente per farne cessare la diffusione in rete. La percezione da parte di terzi della comunicazione offensiva quale avvenimento esterno all’autore del reato, e causalmente collegato al suo comportamento, integra l’evento del reato di diffamazione, il quale si consuma non nel momento della diffusione o pubblicazione del messaggio offensivo, ma in quello della sua percezione da parte di persone terze rispetto al soggetto attivo e al soggetto passivo. In caso di diffamazione a mezzo internet le peculiari caratteristiche tecniche della diffusione del messaggio lesivo non consentono di presumere la conoscenza del messaggio da parte di terzi, come nel caso della stampa o della trasmissione televisiva. Ed invero, nessun sito può essere raggiunto casualmente, in assenza di una specifica conoscenza o di una precisa interrogazione ad un motore di ricerca, né vi sono affidabili massime di esperienza che consentano di affermare con relativa certezza la verificazione dell’evento lesivo. Il reato di diffamazione consistente nell’immissione nella rete Internet di frasi offensive e/o immagini denigratorie, deve ritenersi commesso nel luogo in cui le offese e le denigrazioni sono percepite da più fruitori della rete, pur quando il sito “web” sia registrato all’estero. In caso di diffamazione consumata mediante i contenuti di un sito internet, sussiste la responsabilità concorrente del provider, ancorché quest’ultimo si sia limitato semplicemente ad ospitare sui propri server il contenuto delle pagine web predisposti dal cliente, ai sensi dell’art. 18, l. n. 675/1996, che estende la regola di cui all’art. 2050 c.c. a colui che tratta dati personali. Ai fini dell’integrazione del delitto di diffamazione (art. 595 c.p.), si deve presumere la sussistenza del requisito della comunicazione con più persone qualora il messaggio diffamatorio sia inserito in un sito internet per sua natura destinato ad essere normalmente visitato in tempi assai ravvicinati da un numero indeterminato di soggetti, quale è il caso del giornale telematico, analogamente a quanto si presume nel caso di un tradizionale giornale a stampa, nulla rilevando l’astratta e teorica possibilità che esso non sia acquistato e letto da alcuno.
Il limite più rilevante èrappresentato dalle norme che impongono il rispetto della persona umana e che sono contenute negli artt. 2 e 3 Cost., articoli il che e’di per se ?significativo inseriti tra i principi fondamentali della Costituzione, riconosce espressamente i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove svolge la propria personalità; art. 3 Cost. afferma la pari dignità sociale e l’eguaglianza di tutti i cittadini. La stessa liberta’di manifestazione del pensiero non e’altro che uno dei diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 cit. e, nell’ambito della generale tutela della persona umana, puo’succedere che la liberta’di manifestazione del pensiero possa in concreto confliggere con tali diritti e con essi debba misurarsi. Conseguentemente, qualora si delinei un possibile contrasto tra la liberta’di manifestazione del pensiero e la esigenza di tutela dei diritti della persona, il giudice, chiamato ad esprimersi per riconoscere tutela, dovra’procedere ad un giudizio di comparazione e di prevalenza, alla stregua dei criteri previsti dalla legge o che si desumono dai principi dell’ordinamento, e nel caso in cui ritenga prevalente il diritto della persona, dovrà riconoscere — per un principio anch’esso costituzionalmente garantito ex art. 24 Cost. una tutela piena che possa esprimersi anche nella forma della tutela cautelare tipica e atipica. D’altra parte, lo stesso citato art. 21, 3°comma, prevede la possibilità del sequestro in caso di delitto ed anche questa scelta finisce con l’essere significativa in quanto le norme penali sono fondamentalmente poste proprio a salvaguardia dei diritti costituzionalmente tutelati.

Cio’premesso va rilevato, che:

1) tra i diritti della personalità, meritevoli di tutela e di comparazione con la liberta’di pensiero, spicca quello connesso all’onore della persona, e cioè quello che il soggetto assume leso dal contenuto diffamatorio di un articolo;
2) l’onore della persona trova tutela penale proprio attraverso la tipizzazione della fattispecie del reato di diffamazione e il soggetto ipotizza proprio la configurabilità di tale reato, sicché ?a fronte di tale ipotizzabile lesione del diritto all’onore e alla reputazione, non opera il limite di cui all’art. 21, 3°comma, Cost. e sarebbe dunque possibile il sequestro;
3) comunque la rimozione dell’articolo dalla testata telematica non èassimilabile ed equiparabile a un sequestro, poiché, a differenza del sequestro, non fa venir meno in modo assoluto la di-sponibilità dell’articolo e dunque non incide sulla possibilità di un’eventuale diversa utilizzazione dell’articolo.
In tema di diffamazione il reato di cui all’art. 595 c.p. è configurabile in presenza di un’offesa alla reputazione di una persona determinata e non può, quindi ritenersi sussistente nel caso in cui vengono pronunciate scritte o espressioni offensive riferite a soggetti non individuati, né individuabili o a categorie anche limitate di persone. L’interpretazione giurisprudenziale sul punto è rigorosa, richiede che l’individuazione del soggetto passivo del reato di diffamazione, in mancanza di indicazione specifica e nominativa ovvero di riferimenti in equivoci a fatti e circostanze di notoria conoscenza, attribuibili ad un determinato soggetto, deve essere deducibile, in termini di certezza, dalla stessa prospettazione oggettiva dell’offesa, quale si desume anche dal contesto in cui è inserita.
Bisogna far rilevare anche a qualche giornalista che la pubblicazione di un’informazione concernente una persona determinata, a distanza di tempo da fatti e avvenimenti che la riguardano, non può che integrare la violazione del fondamentale diritto all’oblio, con l’aggravante se il fatto riportato è falso o non veridico.

L’esimente del diritto di critica e del diritto di cronaca nella diffamazione a mezzo stampa.  Il diritto di critica si differenzia essenzialmente da quello di cronaca, in quanto, a differenza di quest’ultimo non si concretizza nella narrazione di fatti, bensì nell’espressione di un giudizio e, più in generale, di un’opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica non può che essere fondata su un’interpretazione necessariamente soggettiva dei fatti. Ne deriva che quando il discorso giornalistico ha una funzione prevalentemente valutativa, non si pone un problema di veridicità delle proposizioni assertive ed i limiti scriminanti del diritto di critica, garantito dall’art. 21 Cost., sono solo quelli costituiti dalla rilevanza sociale dell’argomento e dalla correttezza di espressione, con la conseguenza che detti limiti sono superati, ove l’agente trascenda in attacchi personali, diretti a colpire su un piano individuale la sfera morale del soggetto criticato, penalmente protetta.
I limiti scriminanti del diritto di critica e del diritto di cronaca non sono coincidenti, ma diversi, essendo i primi più ampi dei secondi, per cui, quando uno scritto contiene notizie e opinioni, fatti e critiche, sì da costituire esercizio, a un tempo, di entrambi i diritti, i corrispondenti (e diversi) limiti scriminanti dell’uno e dell’altro vanno individuati in relazione a ciascun contenuto espressivo, salvo che non si ritenga, in fatto, che lo scritto, valutato nel suo complesso, sia prevalentemente e significativamente esercizio o del diritto di critica o di quello di cronaca, nel qual caso è da accordare esclusivo rilievo all’una o all’altra causa di giustificazione.
In tema di diffamazione a mezzo stampa, posto che la scriminante del diritto di critica – a differenza di quella del diritto di cronaca – presuppone un contenuto di veridicità limitato all’oggettiva esistenza del fatto assunto a base delle opinioni e delle valutazioni espresse, anche queste non vengono a costituire una gratuita aggressione all’altrui patrimonio morale, deve ritenersi che sia giudizio di mero fatto quello avente ad oggetto la qualificabilità di una data manifestazione del pensiero come cronaca o come critica, fermo restando che nella seconda di tali ipotesi il limite del diritto di critica è segnato solo dal rispetto dei criteri della rilevanza sociale della notizia e dalla correttezza delle espressioni usate.  Ai fini della configurabilità dell’esimente di cui all’art. 51 c.p. per il reato di diffamazione a mezzo stampa, l’esercizio del diritto di cronaca e di critica, per avere efficacia scriminante, postula: l’interesse che i fatti narrati rivestano per l’opinione pubblica, secondo il principio della pertinenza; la correttezza dell’esposizione di tali fatti, in modo che siano evitate gratuite aggressioni all’altrui reputazione, secondo il principio della continenza; la corrispondenza rigorosa tra i fatti accaduti e i fatti narrati, secondo il principio della verità della notizia e il rigoroso controllo della attendibilità della fonte.
La responsabilità civile del giornalista:

costituisce luogo di incontro scontro di opposte istanze, essendo la libertà di espressione perpetuamente destinata a collidere con la costellazione di beni della persona a diverso titolo
pregiudicati dal suo esercizio (onore, reputazione, identità personale, riservatezza, immagine e presunzione di innocenza)
Fra i diritti della personalità e la libera manifestazione del pensiero vi è una naturale conflittualità, che si risolve modulando e bilanciando la tutela degli uni con quella dell’altra.
Tale conflittualità assume caratteri particolari laddove le libertà di cui all’art. 21 Cost. si traducano nell’esercizio dei diritti di cronaca e critica giornalistica, entrambi muniti di copertura costituzionale.
La Corte costituzionale ha, infatti, in più occasioni riconosciuto che l’art. 21 Cost. ricomprende la “libertà di dare e divulgare notizie, opinioni e commenti” e, più in generale, la libertà di informazione.
Per tale via, si è pervenuti ad una caratterizzazione del diritto di cronaca, consistente “nel potere-dovere conferito al giornalista di portare a conoscenza dell’opinione pubblica fatti, notizie e vicende interessanti la vita associata”, in termini di diritto pubblico soggettivo, diretto ad alimentare il ciclo vitale della democrazia.
Anche i diritti della personalità, d’altronde, sono insigniti di rilievo costituzionale, non solamente in base all’art. 2 della Costituzione, che costituisce la “clausola generale” di protezione dei diritti della persona, ma anche in base all’art. 3, 1° co., Costituzione, secondo cui ”tutti i cittadini hanno pari dignità sociale”.
In tale opera di bilanciamento, assume indiscusso rilievo l’impiego dei parametri cristallizzati dalla Corte di Cassazione in cui sono stati stabiliti i criteri che il diritto di cronaca deve rispettare perché la divulgazione di notizie lesive dell’altrui sfera personale possa considerarsi lecita espressione delle libertà di cui all’art. 21 Cost.
In altri termini, la notizia deve corrispondere ai canoni della verità, dell’utilità sociale e della continenza, e sia, inoltre obiettiva, completa e non frammentaria, idonea a fornire al pubblico tutti gli elementi, affinchè ciascuno possa formarsi correttamente un’opinione sul fatto vero non falso.
È pacifico, infatti, che il giudice civile debba accertare «se sussistano o meno cause di giustificazione – in particolare l’esimente ex art. 51 c.p., vale a dire l’esercizio di un diritto – e solo in caso di riscontro della lesione dell’onore e della reputazione dell’attore, in assenza di scriminanti, potrà affermare la responsabilità del o dei convenuti»
Quanto detto consente di comprendere che la responsabilità del giornalista si muove su un doppio binario, civile e penale, benché sia ormai riscontrabile una netta preferenza del soggetto leso per l’azione civile di risarcimento dei danni in luogo di quella penale.
Ciò posto, va ricordato che – come ormai la giurisprudenza di questa Corte ha più volte avuto occasione di precisare, sia in sede civile che penale – il diritto di stampa (cioè la libertà di diffondere attraverso la stampa notizie e commenti) sancito in linea di principio nell’art. 21 Cost. e regolato fondamentalmente nella l. 8 febbraio 1948 n. 47, è legittimo quando concorrano le seguenti tre condizioni: 1) utilità sociale dell’informazione; 2) verità (oggettiva o anche soltanto putativa purché, in quest’ultimo caso, frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) dei fatti esposti;
3) forma “civile” della esposizione dei fatti e della loro valutazione: cioè non eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire, improntata a serena obiettività almeno nel senso di escludere il preconcetto intento denigratorio e, comunque, in ogni caso rispettosa di quel minimo di dignità cui ha sempre diritto anche la più riprovevole delle persone, sì da non essere mai consentita l’offesa triviale o irridente i più umani sentimenti. La verità dei fatti, cui il giornalista ha il preciso dovere di attenersi, non è rispettata quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano, dolosamente o anche soltanto colposamente, taciuti altri fatti, tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato. La verità non è più tale se è “mezza verità” (o comunque, verità incompleta): quest’ultima, anzi, è più pericolosa della esposizione di singoli fatti falsi per la più chiara assunzione di responsabilità, che comporta, rispettivamente, riferire o sentire riferito a sé un fatto preciso falso, piuttosto che un fatto vero sì, ma incompleto.

La verità incompleta deve essere, pertanto, in tutto equiparata alla notizia falsa.
La forma della critica non è civile, non soltanto quando è eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire o difetta di serenità e di obiettività o, comunque, calpesta quel minimo di dignità cui ogni persona ha sempre diritto, ma anche quando non è improntata a leale chiarezza. E ciò perché soltanto un fatto o un apprezzamento chiaramente esposto favorisce, nella coscienza del giornalista, l’insorgere del senso di responsabilità che deve sempre accompagnare la sua attività e, nel danneggiato, la possibilità di difendersi mediante adeguate smentite nonché la previsione di ricorrere con successo all’autorità giudiziaria. Proprio per questo il difetto intenzionale di leale chiarezza è più pericoloso, talvolta, di una notizia falsa o di un commento triviale e non può rimanere privo di sanzione. E lo sleale difetto di chiarezza sussiste quando il giornalista, al fine di sottrarsi alle responsabilità che comporterebbero univoche informazioni o critiche senza, peraltro, rinunciare a trasmetterle in qualche modo al lettore, ricorre – con particolare riferimento a quanto i giudici di merito hanno nella specie accertato – ad uno dei seguenti subdoli espedienti (nei quali sono da ravvisarsi, in sostanza, altrettante forme di offese indirette):
a) al sottinteso sapiente: cioè all’uso di determinate espressioni nella consapevolezza che il pubblico dei lettori, per ragioni che possono essere le più varie a seconda dei tempi e dei luoghi ma che comunque sono sempre ben precise, le intenderà o in maniera diversa o addirittura contraria al loro significato letterale, ma, comunque, sempre in senso fortemente più sfavorevole – se non apertamente offensivo – nei confronti della persona che si vuol mettere in cattiva luce.
Il più sottile e insidioso di tali espedienti è il racchiudere determinate parole tra virgolette, all’evidente scopo di far intendere al lettore che esse non sono altro che eufemismi, e che, comunque, sono da interpretarsi in ben altro senso da quello che avrebbero senza virgolette;
b) agli accostamenti suggestionanti (conseguiti anche mediante la semplice sequenza in un testo di proposizioni autonome, non legate cioè da alcun esplicito vincolo sintattico) di fatti che si riferiscono alla persona che si vuol mettere in cattiva luce con altri fatti (presenti o passati, ma comunque sempre in qualche modo negativi per la reputazione) concernenti altre persone estranee ovvero con giudizi (anch’essi ovviamente sempre negativi) apparentemente espressi in forma generale ed astratta e come tali ineccepibili (come ad esempio, l’affermazione il furto è sempre da condannare) ma che, invece, per il contesto in cui sono inseriti, il lettore riferisce inevitabilmente a persone ben determinate;
c) al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato specie nei titoli o comunque all’artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre perché insignificanti o, comunque, di scarsissimo valore sintomatico, al solo scopo di indurre i lettori, specie i più superficiali, a lasciarsi suggestionare dal tono usato fino al punto di recepire ciò che corrisponde non tanto al contenuto letterale della notizia, ma quasi esclusivamente al modo della sua presentazione (classici a tal fine sono l’uso del punto esclamativo – anche là ove di solito non viene messo – o la scelta di aggettivi comuni, sempre in senso negativo, ma di significato non facilmente precisabile o comunque sempre legato a valutazioni molto soggettive, come, ad esempio, “notevole”, “impressionante”, “strano”, “non chiaro”.
d) alle vere e proprie insinuazioni anche se più o meno velate (la più tipica delle quali è certamente quella secondo cui “non si può escludere che …” riferita a fatti dei quali non si riferisce alcun serio indizio) che ricorrono quando pur senza esporre fatti o esprimere giudizi apertamente, si articola il discorso in modo tale che il lettore li prenda ugualmente in considerazione a tutto detrimento della reputazione di un determinato soggetto. (Corte Cass. sentenza n. 5259/1984).
Bisogna tenere presente che in tutti i settori anche quello giornalistico e non solo ci sono soggetti cosiddetti disonorati, cioè persone senza onore, persone che “la pubblica opinione e la legge considerano come socialmente degradati e quindi privi di buona considerazione”. In questo caso è difficile fare una valutazione del soggetto e se posso essere rieducati.
Il diritto all’oblio:

Il diritto all’oblio è una manifestazione del diritto alla riservatezza, postula un giudizio di necessario bilanciamento con il diritto di cronaca, quale diritto pubblico soggettivo all’informazione.
È stato dalla stessa giurisprudenza, qualificato come il giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposto ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato divulgata, ma che può essere pure falsa.
Si discorre altresì di un diritto a essere dimenticati, proprio per alludere all’interesse che un soggetto può avere in ordine alla rimozione di fatti specifici, fatti che sono a lui afferenti, affinché non rimanga viva, nell’opinione pubblica, il relativo ricordo, evitando indebite ingerenze nella propria sfera di riservatezza. Ancor più grave è se la notizia è falsa.
La giurisprudenza nazionale ed europea ha stabilito, che il diritto all’oblio, in altre parole il diritto a conseguire la cancellazione di un dato personale, può subire una compressione a favore dell’ugualmente fondamentale diritto di cronaca, solo in presenza di alcuni presupposti fondamentali:
1) contributo arrecato dalla diffusione dell’immagine o della notizia a un dibattito d’interesse pubblico;
2) interesse effettivo e attuale alla diffusione dell’immagine o della notizia;
3) elevato grado di notorietà del soggetto rappresentato;
4) modalità impiegate per ottenere e dare l’informazione, che deve essere veritiera e non inventata;
5) la preventiva informazione circa la pubblicazione o trasmissione della notizia o dell’immagine a distanza di tempo, in modo da consentire il diritto di replica prima della pubblicazione.
Ciò significa che bisogna avvisare.

Negli altri casi, Il diritto all’oblio significa, impedire che la notizia già pubblicizzata, resa nota, sfuggita alla sfera privata del soggetto, venga pubblicizzata nuovamente a distanza di tempo. Con esso non si mira a cancellare il passato quanto a proteggere il presente.
In tema di diffamazione a mezzo stampa, il diritto del soggetto a pretendere che proprie, passate vicende personali siano pubblicamente dimenticate trova limite nel diritto di cronaca solo quando sussista un interesse effettivo ed attuale alla loro diffusione, nel senso che quanto recentemente accaduto trovi diretto collegamento con quelle vicende stesse e ne rinnovi l’attualità, in caso diverso risolvendosi il pubblico ed improprio collegamento tra le due informazioni in un’illecita lesione del diritto alla riservatezza.
Secondo l’unanime insegnamento della giurisprudenza, il diritto di cronaca è un diritto pubblico soggettivo, da comprendersi in quello più ampio della libera manifestazione del pensiero e di stampa, tutelato dall’art. 21 Cost. e consiste nel potere dovere del giornalista di portare a conoscenza, fatti, notizie e vicende che interessano la vita sociale.
La notizia deve essere vera.
Il diritto di cronaca, ha dei limiti, il riferimento è nello specifico ai requisiti di verità, continenza e pertinenza che la notizia diffusa deve possedere.
Anche nel codice della privacy si rinviene delle limitazioni sempre con riferimento alla proporzionalità, pertinenza, e non eccedenza nella raccolta e divulgazione dei dati personali. (D.Lgs. n. 196/2003).
Il diritto all’oblio ha trovato formale riconoscimento nel Regolamento UE n. 2016/679, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali.
In precedenza il riferimento era rappresentato dagli artt. 7,11,25 Codice della Privacy.
All’art. 17 del predetto regolamento, UE – l’interessato ha il diritto di richiedere la rimozione dei dati personali che lo riguardano, in particola modo se i dati resi riguardavano un minore.
Con l’entrata in vigore del Regolamento UE, si è osservato che il diritto all’oblio, si riferisce al diritto del soggetto ad ottenere la cancellazione dei dati in un contesto, cioè quello informatizzato, in continua evoluzione (e non controllato), in cui risulta estremamente agevole, ma pericoloso, la diffusione di determinate notizie relative alla persona per motivi che superino il motivo per cui erano state acquisite. Il diritto di cronaca, tuttavia, non può essere considerato senza limiti.
Tali limiti sono stati riassunti in due sentenze che costituiscono ancora oggi imprescindibile punto di riferimento nella materia in esame: la sentenza n. 8959 del 30/06/1984 delle Sezioni Unite Penali e la sentenza n. 5259 del 18/10/1984 della Prima Sezione Civile di questa Corte.
In particolare, in quest’ultima è stato affermato che il diritto di cronaca “è legittimo quando concorrono le seguenti tre condizioni: a) utilità sociale dell’informazione; b) verità (oggettiva o anche soltanto putativa, purchè frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) dei fatti esposti, che non è rispettata quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano, dolosamente o anche soltanto colposamente, taciuti altri fatti, tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato; c) forma “civile” dell’esposizione dei fatti e della loro valutazione, cioè non eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire, improntata a serena obiettività almeno nel senso di escludere il preconcetto intento denigratorio e, comunque, in ogni caso rispettosa di quel minimo di dignità cui ha sempre diritto anche la più riprovevole delle persone, sì da non essere mai consentita l’offesa triviale o irridente i più umani sentimenti.
La forma della critica non è civile quando non è improntata a leale chiarezza, quando cioè il giornalista ricorre al sottinteso sapiente, agli accostamenti suggestionanti, al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato o comunque all’artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre, alle vere e proprie insinuazioni.
In tali ipotesi l’esercizio del diritto di stampa può costituire illecito civile anche ove non costituisca reato” (Sez. 1, Sentenza n. 5259 del 18/10/1984, Rv. 436989 – 01).
Peraltro, giurisprudenza successiva (cfr., tra le tante, Sez. 3^, sent. n. 8963 del 29/8/1990, sent. n. 23366 del 15/12/2004 e sent. n. 2271 del 4/2/2005) ha avuto modo di precisare che i requisiti della verità dei fatti narrati, della forma civile della loro esposizione e della loro valutazione, nonchè la
sussistenza di un pubblico interesse alla conoscenza della notizia sono requisiti, tra loro strettamente connessi, in composizione variabile a seconda che si eserciti un diritto di cronaca o un diritto di critica giornalistica. Invero, nella cronaca, assume carattere determinante la verità dei fatti narrati, mentre, nella critica, è centrale la rilevanza sociale dell’argomento trattato e la correttezza delle espressioni utilizzate. Ciò in quanto il diritto di critica si distingue dal diritto di cronaca per il fatto di consistere nell’espressione di un’opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva e asettica, ma che ha, per sua natura, carattere congetturale e soggettivo.
E la giurisprudenza di legittimità penale ha di recente chiarito anche la differenza tra cronaca e storia (Sez. 1, n. 13941 del 08/01/2015 ) la prima presuppone la immediatezza della notizia e la tempestività dell’informazione e, se si riconosce l’interesse pubblico ad una notizia tempestiva, non può non ammettersi che l’esigenza di velocità possa comportare un qualche sacrificio dell’accuratezza della verifica sulla verità della notizia e sulla bontà della fonte dalla quale si è appresa. La storia, invece, ha ad oggetto fatti o comportamenti distanti nel tempo e, quanto più sono lontani nel tempo i fatti narrati, tanto meno si giustifica il menzionato sacrificio dell’accuratezza della verifica (per quanto nessuna storia raccontata può essere del tutto imparziale, essendo operazione soggettiva anche la semplice operazione di connessione ei dati) (v. pure Cass. 6784/16).4.Orbene, i requisiti della verità dei fatti narrati, della forma civile della loro esposizione e della loro valutazione, nonchè la sussistenza di un pubblico interesse alla conoscenza della notizia sono requisiti che – nel consentire la legittima intrusione nella vita privata altrui in nome del superiore interesse pubblico all’informazione – assumono rilevanza: non soltanto come fattori legittimanti l’iniziale diffusione della notizia, ma anche come elemento persistente nel tempo volto ad escludere l’antigiuridicità delle successive rievocazioni. Dunque, l’esercizio del diritto all’oblio è collegato, in coppia dialettica, al diritto di cronaca. L’interesse del singolo all’anonimato assurge a “diritto” esclusivamente allorquando: non vi sia più un’apprezzabile utilità sociale ad informare il pubblico; ovvero la notizia sia diventata “falsa” in quanto non aggiornata o, infine, quando l’esposizione dei fatti non sia stata commisurata all’esigenza informativa ed abbia recato un vulnus alla dignità dell’interessato.5. In coerenza con le suddette premesse concettuali, proprio questa Sezione, nell’ormai lontano 1998, ha esplicitamente riconosciuto il diritto all’oblio, qualificandolo come “…giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata” (Sez. 3, Sentenza n. 3679 del 09/04/1998).

Ci sono ancora difficoltà riscontrate dalla dottrina e giurisprudenza, nel delineare criteri univoci di bilanciamento tra il diritto all’oblio e il diritto di cronaca. Il principio della certezza del diritto da molti invocato, impone di addivenire a parametri di riferimento chiari e specifici, che devono consentire un soggetto che si vede penosamente esposto al discredito o al ludibrio generale da parte di qualche altro soggetto penoso e disonorato, il diritto di chiedere che una notizia non resti esposta a tempo indeterminato alla possibilità di nuova divulgazione.