Lavoro dipendente svolto all'estero da cittadini italiani

In questo periodo, i contribuenti sono come al solito alle prese con la compilazione della dichiarazione dei redditi e l’eventuale conseguente pagamento delle imposte. Non per tutti, però, la situazione appare chiara.<br>Ogni anno aumenta sempre di più il numero dei cittadini italiani che si reca all’estero per lavorare alle dipendenze di un datore di lavoro locale, ma, da un punto di vista prettamente fiscale, resta residente in patria. Orbene, per tali soggetti, spesso non è affatto facile comprendere quali siano gli adempimenti cui devono provvedere e, in generale, quali eventuali obblighi abbiano nei confronti del Fisco nazionale.
Non potendo, per ovvie ragioni, analizzare in dettaglio tutte le diverse fattispecie che si possono presentare nella realtà, in questo contributo ci proponiamo di fornire le indicazioni per quei casi maggiormente a rischio di errore.

Lo spartiacque, noto oramai un po’ a tutti, per determinare il luogo di residenza è la durata del lavoro: “fino a” o “più di” 183 giorni l’anno. Questo parametro deriva dalle disposizioni generali.

Art. 117, Costituzione:
La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’Ordinamento Comunitario e dagli obblighi internazionali.

Art. 75, DPR 600/1973:
Nell’applicazione delle disposizioni concernenti le imposte sui redditi, sono fatti salvi gli accordi internazionali resi esecutivi in Italia.

Art. 169, TUIR:
Le disposizioni del presente testo unico si applicano, se più favorevoli al contribuente, anche in deroga agli accordi internazionali contro la doppia imposizione.

Si viene così a dettare una sorta di gerarchia delle fonti in cui, dopo la Costituzione, occorre far riferimento all’ordinamento comunitario, poi a quello convenzionale e infine alla legge nazionale.

Oggigiorno, è davvero raro che si vada a lavorare in un Paese con cui l’Italia non abbia in essere un Trattato contro le doppie imposizioni sulla base dello schema previsto dall’OCSE; e, per quanto concerne il reddito da lavoro dipendente,  tale Modello Convenzionale – in genere, all’art. 15 – pone l’attenzione, per l’appunto, anche sul periodo annuale di svolgimento del rapporto di lavoro ai fini di indicare il luogo di imposizione.

Torneremo più approfonditamente in seguito sull’art. 15 dell’OECD Model Tax Convention; ciò che però possiamo subito anticipare è che, purtroppo, la situazione non è solo basata sul parametro dei 183 giorni, e occorre tenere in debita considerazione anche le altre previsioni normative.

Partiamo, innanzitutto, col premettere che, in ossequio al generale concetto di capacità contributiva dettato dall’art. 53, comma 1, della Costituzione (Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva), l’Italia applica:

ai non residenti, il Principio della Fonte/Territorialità del reddito (tassazione in Italia per i redditi qui prodotti);
ai cittadini residenti, il Principio della Tassazione Mondiale (Worldwide Principle Taxation).

Orbene, in funzione a detto ultimo principio impositivo, coloro che risultano fiscalmente residenti nel Belpaese, di base, dovranno essere tassati in relazione a tutti i redditi che hanno ovunque prodotto nel mondo:
L’imposta si applica sul reddito complessivo del soggetto (art. 3, comma 1, TUIR).

In tema di imposte dirette, il richiamato Testo Unico, al successivo art. 23, indica le regole generali afferenti la territorialità, stabilendo, con riguardo in particolare ai redditi da lavoro dipendente, che gli stessi si considerano prodotti in Italia, se l’attività è svolta in Italia. Trattasi, invero, di un principio base valido per qualsiasi tipologia di reddito, la cui ratio – anche in linea con le raccomandazioni di carattere internazionale – è quella di collegare sempre i redditi, e le correlate imposte da versare, al luogo in cui vengono prodotti (Nexus Approach).

Ricordate le disposizioni concernenti l’aspetto di carattere oggettivo, occorre ora verificare la questione dal punto di vista dei soggetti percipienti.
In considerazione dell’ipotesi reddituale che qui ci occupa, è dunque necessario primariamente conoscere come si determina la residenza fiscale dei contribuenti.

A livello nazionale, l’art. 2 del TUIR dispone che, con riguardo alle persone fisiche, la residenza è il luogo in cui, per la maggior parte dell’anno (più di 183 giorni, anche non continuativi), il contribuente risulta:

essere iscritto all’Anagrafe della popolazione residente; o
avere, nel territorio dello Stato, il domicilio (ex art. 43, Codice Civile); o
avere, nel territorio dello Stato, la residenza (sempre, ex art. 43, Codice Civile).

La congiunzione “o” sta a indicare che basta il verificarsi anche di uno solo dei suddetti requisiti, perché operi la presunzione di legge (non suscettibile di prova contraria), in base alla quale il soggetto sarà obbligatoriamente considerato residente fiscalmente in Italia e, quindi, assoggettato al prima richiamato Worldwide Principle Taxation: obbligo di dichiarare in Italia tutti i redditi ovunque prodotti nel mondo.

Dando uno sguardo alla situazione internazionale, è l’art. 4 del Modello Convenzionale OCSE a fornire le indicazioni sui metodi da seguire per stabilire la residenza fiscale dei cittadini, laddove un individuo risulti residente in entrambi i Paesi Contraenti. Il suo status si determina, nell’ordine:

Paese presso il quale ha un’abitazione permanente a disposizione; se la possiede in entrambi i Paesi, quello dove ha le relazioni economiche prioritarie (gli interessi economici prevalgono sugli affetti familiari – Cassaz. Sez. Trib. 6501/2015)
Qualora il Paese nel quale egli abbia il suo centro di interessi non possa essere determinato, o qualora egli non abbia un’abitazione permanente in alcuno dei Paesi, deve essere ritenuto residente solamente nel Paese nel quale egli soggiorna abitualmente (per l’accertamento della dimora si prenderanno in esame i consumi/utenze)
Qualora egli soggiorni abitualmente in entrambi o in nessuno dei due Paesi, deve essere ritenuto residente solamente nel Paese del quale è cittadino (il criterio della cittadinanza, dunque, solo in subordine rispetto all’abitazione permanente, agli interessi economici e alla dimora)
Qualora egli sia cittadino di entrambi o di nessuno dei Paesi, le Autorità competenti dei Paesi Contraenti devono risolvere la questione mediante un accordo reciproco (M.A.P. – Mutual Agreement Procedure).
Fatta questa panoramica generale sulla normativa di riferimento nazionale e internazionale, cerchiamo ora di inquadrare con precisione il nocciolo del problema.

Come premesso, l’ipotesi in discussione concerne quali siano gli eventuali adempimenti a cui sono obbligati, nei confronti dell’Erario nazionale, quei cittadini italiani che abbiano lavorato, durante lo scorso anno 2016, all’estero (esempio: Inghilterra, Stato con il quale è in essere un Trattato Bilaterale sulla base del Modello Convenzionale OCSE), alle dipendenze di un datore di lavoro locale; dando ovviamente per scontato che, in Inghilterra, chi di dovere abbia eventualmente già provveduto.

Ebbene, l’anzidetto art. 15 del Trattato stabilisce che:
(per facilitare la comprensione della norma, sostituiamo i termini originali di “Paese Contraente” con quelli propri della rispettiva nazione relativa al nostro esempio)

I salari, le paghe e le altre forme di remunerazione simili ottenute da un residente fiscale italiano con riferimento a un contratto di lavoro dipendente, devono essere tassate solamente in Italia, a meno che il rapporto di lavoro non sia esercitato in Inghilterra.

Dunque, sulla scorta di questo primo comma, se un reddito di lavoro dipendente è prodotto in Italia da un soggetto che (in base al citato art. 2 del TUIR) è fiscalmente residente in Italia, perché, per più di 183 giorni nell’anno, è iscritto all’Anagrafe nazionale (e non all’AIRE – Associazione Italiani Residenti all’Estero), o ha in Italia il domicilio, o la residenza (ex art. 43 del Codice Civile), detto reddito dovrà essere tassato SOLAMENTE in Italia. Questa specifica previsione, però, non si applica, se invece il rapporto di lavoro si è svolto in Inghilterra.

Attenzione: la norma non dice che, laddove il rapporto di lavoro sia svolto in Inghilterra, il reddito dovrà essere tassato esclusivamente in Inghilterra.

Ergo, in questo secondo caso (cittadino italiano, fiscalmente residente in Italia con reddito da lavoro dipendente svolto in Inghilterra), dovremo andare ad applicare le altre disposizioni di riferimento (nazionale e convenzionale) già in precedenza evidenziate.

Ebbene, il residente fiscale italiano, in quanto soggetto al Principio della Tassazione su base mondiale, dovrà così dichiarare anche in Italia i redditi prodotti in Inghilterra; naturalmente, nei limiti del concetto di capacità contributiva (ex art. 53 della Costituzione), ovvero facendo valere il credito per le imposte già pagate in Inghilterra a titolo definitivo. Precisiamo che sono tali quei tributi divenuti “irripetibili”, nel senso che non devono più essere suscettibili di modifiche a favore del contribuente, né di eventuali rimborsi.

L’aspetto è disciplinato dall’art. 165, del TUIR, che, al comma 1, precisa:
In deroga alla determinazione su base analitica, se alla formazione del reddito complessivo concorrono redditi prodotti all’estero, le imposte ivi pagate a titolo definitivo su tali redditi sono ammesse in detrazione dall’imposta netta dovuta fino alla concorrenza della quota d’imposta corrispondente al rapporto tra i redditi prodotti all’estero e il reddito complessivo.

Da notare che, conformemente al dispositivo del sopra menzionato comma 1, dell’art. 15, del Modello Convenzionale, deriva altresì che se, al contrario, il cittadino italiano in questione fosse stato fiscalmente residente in Inghilterra, il reddito in parola (svolto in Inghilterra) avrebbe subito la tassazione solamente in Inghilterra.

Dopo di che, a delimitare la previsione del comma 1, interviene il successivo comma 2, il quale stabilisce che:

La remunerazione ottenuta da un residente fiscale italiano con riferimento a un contratto di lavoro dipendente svolto in Inghilterra, deve essere tassata solamente in Italia, se:

colui che riceve la remunerazione è presente in Inghilterra per un periodo o per periodi non superiori a 183 giorni complessivamente nell’anno; e
la remunerazione è pagata da, o per conto di, un datore di lavoro che non è residente in Inghilterra; e
la remunerazione non origina da una stabile organizzazione, o da una base fissa, di cui il datore di lavoro disponga in Inghilterra.

Attenzione: in questo caso, la congiunzione “e” impone che le sopra riportate condizioni non siano alternative fra loro, ma si verifichino necessariamente tutte e tre.

Dunque, nel caso in cui non sussistano contemporaneamente tali condizioni, la tassazione potrà essere di tipo concorrente nei due Stati. In pratica, sia l’Italia che l’Inghilterra potranno tassare tale reddito.

In “soccorso” di tali contribuenti, interviene l’art. 51, comma 8-Bis, del TUIR:
Il reddito derivante dall’attività prestata all’estero, in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto di lavoro, da dipendenti che nell’arco dei dodici mesi ivi soggiornano per un periodo superiore ai 183 giorni, è determinato sulla base delle retribuzioni convenzionali.

Attenzione anche qui al dettato letterale della norma:

Continuità, l’incarico deve essere stabile, ossia non di tipo occasionale (la durata effettiva, qui, non c’entra: potrà al limite assumere solo un carattere indiziario secondario)
Esclusività, la prestazione di lavoro all’estero deve costituire l’unica attività affidata al dipendente, e non essere meramente accessoria o strumentale rispetto allo svolgimento di altre eventuali mansioni eseguite in Italia
Durata, il parametro dei 183 giorni, qui, non è riferito all’anno ma, genericamente, a dodici mesi; dunque, potrà conteggiarsi anche a cavallo di due anni.

Gli importi concernenti le retribuzioni convenzionali vengono rideterminati ogni anno con decreto dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze (per l’anno 2016, trattasi del DM 25/01/2016, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale N. 24 del 30 gennaio 2016).

Senza volere, in questa sede, addentrarci troppo in dettagli di carattere pratico, rammentiamo solo che, in sostanza, la fascia di retribuzione imponibile verrà determinata sulla base del raffronto con lo scaglione della retribuzione nazionale corrispondente (Circ. INPS 72/1990).

In conclusione, riassumendo i vari concetti esposti, avremo le seguenti differenti situazioni:

I) Cittadino italiano, fiscalmente residente in Italia, che ha svolto nel 2016 lavoro dipendente in Inghilterra, alle dipendenze di un datore di lavoro locale, per un periodo non superiore a 183 giorni nell’anno = tassazione esclusiva in Italia

II) Cittadino italiano, fiscalmente residente in Italia, che ha svolto nel 2016 lavoro dipendente in Inghilterra, alle dipendenze di un datore di lavoro locale, per un periodo superiore a 183 giorni nell’anno = tassazione concorrente sia in Inghilterra che in Italia (in genere: retribuzioni convenzionali e redditi dichiarati nel Quadro RC del Modello Unico, ovvero nel Quadro G4 del Modello 730)

III) Cittadino italiano, fiscalmente residente in Inghilterra, che ha svolto nel 2016 lavoro dipendente in Inghilterra, alle dipendenze di un datore di lavoro locale, = tassazione esclusiva in Inghilterra (ecco perché, laddove ovviamente sussistano i presupposti di legge, è fortemente raccomandato richiedere, fin dal principio, l’iscrizione all’AIRE).

Fonte: http://www.paolosoro.it