31 Mag La sharing economy e il commercialista 4.0
L’abbinamento Internet – innovazione tecnologica, oltre a rivoluzionare gli aspetti culturali e sociali, sta generando radicali mutamenti nelle professioni economiche e legali.<br>Il business digitale impone una nuova visione dell’economia, che tende a innovativi modelli di business e, di conseguenza, alla creazione di rivoluzionarie figure professionali, impensabili solo fino a qualche anno addietro. Per esempio, il marketing oggi è diventato network marketing, web marketing, social media marketing. Da ciò ne deriva che gli esperti di marketing adesso sono i social media manager, i consulenti di web marketing, i web influencer etc.
Altro caso emblematico è quello concernente riviste e giornali che si leggono in misura sempre più preponderante nel formato elettronico, anziché tramite il tradizionale mezzo cartaceo. Questo comporta la necessità di scegliere i contenuti maggiormente adatti a essere immediatamente evidenziati, le parole chiave ottimali per venire subito “catturate” dai motori di ricerca e via discorrendo. Le figure professionali che si ricercano, pertanto, non sono più i classici correttori di bozze, ma piuttosto i web content manager e i SEO copywriter (scrittori di contenuti dotati dei requisiti di Search Engine Optimization).
Il commercialista, anziché rimboccarsi le maniche e passare al nuovo status 4.0 richiesto dal mercato in cui opera, spesso e volentieri, affronta questo mutamento economico e professionale quasi da spettatore infastidito: il progresso tecnologico viene visto come la causa dell’ennesima nuova serie di adempimenti lavorativi che occorre eseguire. Senonché, prima ancora, è necessario valutarne le implicazioni normative; cosa tutt’altro che semplice, considerato che certo il Legislatore non riesce a tenere il passo con l’innovazione tecnologica. Pensiamo, per esempio, alle cripto-valute: inquadramento fiscale, inserimento delle poste in bilancio, tassabilità delle eventuali plusvalenze, segnalazioni di operazioni sospette, sono solo alcune delle problematiche che destano tuttora forti dubbi.
Ebbene, ad avviso di chi scrive, questo atteggiamento passivo, oltre a essere anacronistico, risulta controproducente e finanche autolesionistico: occorre sempre provare a cavalcare la tigre, se non si vuole restarne sopraffatti.
La novità affacciatasi di recente nel mondo dell’economia digitale che sembra destinata a divenire il principale fattore di propulsione del mercato, è la sharing economy. La sfida da raccogliere e vincere, per tutti i commercialisti, è allora quella di gestirne al meglio gli effetti: diventarne primi attori per produrre nuovo lavoro e fatturato; rivedere sostanzialmente la maniera di svolgere la professione classica, sviluppando nuove competenze che nessuno meglio di un commercialista – per formazione culturale e know-how – dovrebbe essere già in grado di possedere.
Il termine “sharing economy” è stato introdotto nel 2015 dall’Oxford Dictionary, che la descrive come: “sistema economico in cui beni o servizi sono condivisi tra individui privati, gratis o a pagamento, attraverso Internet”.
In sostanza, si parla di sharing economy (economia condivisa) come di quel modello economico circolare nel quale professionisti, consumatori e semplici cittadini mettono a disposizione competenze, tempo, beni e conoscenze, per la creazione di legami virtuosi che si basano sull’utilizzo della tecnologia in modo relazionale. Le sue peculiarità sono: riuso, riutilizzo e condivisione. Vengono alla ribalta nuovi stili di vita che prediligono il risparmio o la ridistribuzione del denaro, e favoriscono la socializzazione.
Grazie all’innovazione tecnologica si sono costruite delle piattaforme digitali che rendono tale modello di business concreto e solido, consentendo di condividere praticamente tutto: auto, moto, biciclette, uffici, abitazioni, taxi, idee imprenditoriali, fondi di investimento, assicurazioni, consegne a domicilio e un insieme di innumerevoli altri servizi.
Tra le fattispecie di sharing economy di cui si sente sempre di più parlare – a esempio – possiamo ricordare le famose piattaforme AirBnb e Bla Bla Car:
– AirBnb è una community che permette a chi ha una o più camere disponibili nella propria abitazione di affittarle ai viaggiatori, come valida e conveniente alternativa rispetto alla classica sistemazione in hotel
– Bla Bla Car è il social network dei passaggi in auto, un sito italiano per la condivisione delle vetture con oltre 30 milioni di utenti iscritti e più di 10 milioni di viaggiatori ogni trimestre
Ovviamente, le varie imprese del settore presentano profonde differenze fra loro; basti pensare a realtà quali: Uber, Ebay, Car2Go, Enjoy, Flixbus o Leroy Merlin, col suo nuovo modello di negozio-piattaforma proposto a Torino. Ma, sharing economy è anche un modello di condivisione utilizzato da amministrazioni comunali con obiettivi di eco-sostenibilità e salvaguardia dell’ambiente (servizio di bike-sharing elettriche a Milano).
In Italia esistono circa 250 “piattaforme collaborative” online, secondo una ricerca dell’Università Cattolica, presentata nel corso di Sharitaly, il primo incontro interamente dedicato all’economia condivisa. Nel dettaglio, la ricerca indica circa 160 piattaforme di scambio e condivisione, circa 40 esperienze di autoproduzione e circa 60 di crowdfunding (di cui 14 in fase di lancio).
Quasi il 15% della popolazione italiana ha utilizzato almeno una volta servizi di sharing economy. Gli “early adopter” sono uomini con livello di istruzione elevato e residenti in grandi centri abitati, che utilizzano i servizi di sharing economy perché propongono soluzioni innovative e rispettose dell’ambiente, favoriscono la socializzazione ma anche il risparmio economico. Tra i servizi più utilizzati, vi sono quelli legati alla mobilità (car sharing), alloggio condiviso, scambio e baratto. Le resistenze di chi non ha provato i servizi di condivisione riguardano soprattutto problemi legati alla fiducia verso gli altri.
I risultati di uno studio condotto da Price Waterhouse Coopers dimostrano che il giro d’affari della sharing economy in Europa potrebbe valere, in termini di volumi di transito, 570 miliardi di euro entro il 2025. Tale valore è di 20 volte superiore rispetto a quello attuale, nonostante il costante incremento annuale del 100% circa, già verificatosi dal 2014 a oggi. In Europa, Germania e Gran Bretagna continuano a risultare le nazioni più attive; seguite da Olanda, Italia e Spagna.
Assodato, dunque, che investire tempo, competenze e risorse nel modello economico in parola potrebbe rappresentare una scelta particolarmente premiante, occorre altresì richiamare l’attenzione sul nuovo tipo di transazioni che vengono compiute: non si parla più di B2B (Business to Business) o di B2C (Business to Consumer), ma di C2B (Consumer to Business). È, infatti, il consumatore a fornire all’azienda i beni e i servizi a essa necessari per sviluppare la propria attività.
Il mondo e i rapporti economici come li conoscevamo, insomma, non esistono più: le relazioni si sviluppano sulla base di transazioni orizzontali fra i vari attori del sistema, partendo dall’iniziativa individuale di soggetti che sono qualificabili come “Consumer” all’interno della sharing economy, ma che spesso svolgono anche un’altra attività (primaria) e occupano ufficialmente una posizione assai differente nel mercato del lavoro.
Seppure l’economia digitale italiana di certo non brilli a livello mondiale, questi nuovi “Consumer” guadagnano non di rado somme considerevoli, pur restando inclusi ufficialmente negli elenchi dei disoccupati (magari, pure fruitori di Naspi). E questo pone non pochi interrogativi di carattere fiscale e previdenziale. Nel momento in cui la Commissione europea avrà definito la web-tax per le imprese del settore (prima o poi, potrebbe anche riuscirci… non si sa mai), dovrà quindi affrontare la tassazione (e la conseguente contribuzione) sui redditi “secondari” – spesso non dichiarati – dei nuovi soggetti “Consumer” della sharing economy. Già si intravvedono, infatti, ulteriori mutamenti economici e sociali, specialmente in ambito lavorativo e di produzione autonoma del reddito da parte dei privati.
In effetti, dal settore C2B (Consumer to Business) al neonato mercato del C2C (Consumer to Consumer), il passo è stato fin troppo breve e prevedibile. In tale nuovo mercato, i singoli consumatori, grazie a portali dedicati, scambiano tra loro beni e servizi nelle più disparate forme: dal baratto, alla banca del tempo fino alla più classica compravendita. D’altronde, gli esempi di grandi imprese di successo che sfruttano gli scambi tra privati sono innumerevoli e sotto gli occhi di tutti. Per cui, non v’è ragione perché anche i consumatori privati non sfruttino determinate occasioni di business, atteso che la tecnologia digitale lo consente ampiamente.
Cionondimeno, non bisogna sottacere quelle che sono le naturali criticità insite nel modello economico condiviso su cui porre maggiore attenzione, riscontrabili principalmente (oltre a quanto appena rilevato in materia fiscale e previdenziale), pure, in generale, in ambito macroeconomico, legale e giuslavoristico.
In ottica macroeconomica, è evidente che raggiungere rapidamente grosse masse in modo estremamente semplice, significa convogliare milioni di persone, accentrando nelle mani di poche aziende la maggior parte non solo dei capitali ma anche delle quote di mercato. Questione che impone sicuramente la necessità di regolamentare adeguatamente il settore per non creare ingiusti disequilibri.
Circa i rischi di carattere legale, sarà sufficiente limitarsi a ricordare il caso della recente deviata campagna elettorale americana, o quello presente sui media di tutto il mondo proprio in questi giorni, concernente la violazione dei dati degli utenti del numero uno dei social media, Facebook: il flusso dei dati sensibili e la possibile manipolazione delle informazioni al fine di distorcere la realtà, o, ancora peggio, approfittarne per acquisire posizioni personali di vantaggio, danneggiando competitor e consumatori. Sul punto, giova ricordare la data del 25 maggio 2018, da cui vige il nuovo Regolamento UE 679/2016 GDPR, in tema di privacy.
Infine, quanto all’ambito giuslavoristico, i rischi paiono ineluttabilmente insiti nel modello economico stesso, il quale, proprio per le sue peculiarità, non consente di definire compiutamente il ruolo dei vari attori. Uno stesso soggetto, infatti, può essere sia produttore che consumatore; fornire i servizi nella piattaforma in maniera occasionale o continuativa. Non solo: gli utenti delle piattaforme diventano essi stessi dei veicoli promozionali e questo fatto può essere sfruttato dalle imprese per vendere i propri beni e servizi, a fronte di premi, buoni sconto et similia, eludendo le leggi in materia di lavoro.
I commercialisti (dal loro canto), come del resto anche altri professionisti, hanno in un certo senso precorso i tempi della sharing economy attraverso la costituzione di network, i quali, sulla carta, avevano appunto lo scopo di creare condizioni di business condivise e ottimizzare i costi. In pratica, nella stragrande maggioranza dei casi, lo spirito individualistico non ha consentito di sviluppare i modelli di rete professionale, cogliendone appieno tutte le potenzialità e i vantaggi, che sono propri – come testé dimostrato dallo sviluppo della sharing economy – di qualunque modello di condivisione, in cui, per sua natura, tutti i soggetti coinvolti guadagnano qualcosa ed esiste una relativa facilità d’ingresso e d’uso.
Opporsi a questi cambiamenti è profondamente stupido, inutile e, soprattutto, economicamente svantaggioso. Ciononostante, esistono ancora network interprofessionali che, orgogliosamente, promuovono un’appartenenza elitaria e decisamente costosa.
Ebbene, la sharing economy viceversa garantisce profitti e vantaggi elevati proprio basandosi su opposte condizioni: facilità d’ingresso e gratuità per i partecipanti, oltre alla massima condivisione possibile.
Dunque, i nuovi commercialisti 4.0 devono incominciare a ragionare esattamente in tali termini: da un lato, assumere la veste di attori primari presso le varie piattaforme di sharing economy esistenti, portando all’interno delle stesse le proprie competenze e capacità specialistiche; dall’altro, sviluppare nuovi e moderni sistemi di network di consulenza, i quali costituiscono – se ben strutturati, e partecipati con lo spirito giusto – i più rilevanti modelli economici di condivisione che hanno in mano tali professionisti.
In definitiva, la vecchia mentalità di accaparramento clientelare individuale, di rifiuto di condivisione nel fornire consulenza e di gelosa chiusura nel proprio orticello, ha portato al periodo economico più “buio” nella storia delle professioni liberali, per le quali non si vede più alcun futuro. Questi risultati sono evidenti a tutti. Chi non lo riconosce, è solo perché si dimostra troppo presuntuoso e ottuso per volerlo ammettere anche a sé stesso.
La consulenza oggi deve essere nel contempo globale e sempre più specializzata: è impossibile, pertanto, che un unico consulente sia in grado di fornirla in modo competitivo rispetto a un network interprofessionale di caratura internazionale. Tanto più, avuto riguardo al processo di globalizzazione in atto.
Inoltre, come già accennato, i nuovi soggetti presenti sul mercato necessitano di particolari servizi di assistenza e consulenza che richiedono l’acquisizione di nuove nozioni e capacità in capo ai professionisti che intendono seguirli.
Riteniamo, pertanto, che i commercialisti 4.0 devono ragionare in linea coi tempi che vivono e pensare analogamente in termini di economia condivisa, ben sapendo che l’unica strada da percorrere, oggigiorno, è questa.
Dopo di che, ovviamente, resta fortemente auspicabile che vengano definite in tempi rapidi delle norme corrette e (parimenti) condivise. Poiché, qualsiasi modello di sharing economy (professionale o meno), non potrà mai prescindere da un appropriato sistema di regolamentazione organizzativa, che eviti effetti negativi al suo interno e indesiderate distorsioni all’esterno.
Fonte: http://www.paolosoro.it